Ho già raccontato altre volte delle lezioni di un mio splendido professore alla Facoltà di architettura del Politecnico di Torino. Eravamo in pieno ’68 (in calendario in verità 1969) e per me era il docente di Disegno e rilievo dell’architettura, fondamentale del biennio.
Le sue lezioni nell’aula a gradoni di legno nel fabbricato a destra della corte principale del castello del Valentino spesso erano delle ispirate conversazioni, narrazioni fra il poetico e l’ironico, ammiccando con finta severità alla storia e alla formazione per il moderno. Così a volte rivelava i suoi sogni, e le forme architettoniche si svelavano come le sinuosità di un corpo femminile, e le immagini erano arricchite da una sottile vena di eccitazione nella voce. Così imparammo che esisteva un erotismo dell’architettura, che sfera onirica e realtà quotidiana si arricchivano a vicenda, e che il progetto non poteva prescindere dal sogno, dall’emozione che dai fumi della notte si proiettava nel futuro. Così nell’immaginazione come nell’esercizio critico ogni stile era un personaggio, una figura umana che si trasformava in pietra o una costruzione che si incarnava in modo che lo sguardo presupponesse immediatamente il tatto. La bellezza del classico concorreva con quella del barocco, romanico e gotico si fronteggiavano in un grandioso defilè, personaggi da passerella che erano la traduzione accessibile a tutti delle varie estetiche del costruire. L’architettura dunque non aveva un “genere” ma tante identità, formate da percezioni ed emozioni che si alternavano fra sogno e realtà....
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